Sernaglia della Battaglia

SERNAGLIA DELLA BATTAGLIA

 

Due artisti, due epoche, due linguaggi per dire il sacro

Il fiume Piave è la spina dorsale di queste terre. Antica arteria per i traffici commerciali, fonte di sostentamento. Nell’autunno del 1917, all’indomani della disfatta di Caporetto, il suo letto, ampio e ghiaioso, si trasforma in un sanguinoso teatro di guerra. E’ una vera devastazione per i paesi rivieraschi. Un anno dopo, alla fine del conflitto, i centri abitati sono irriconoscibili! E’ il caso, tra tanti, di Sernaglia, che si chiamerà d’ora in poi Sernaglia “della Battaglia”, toponimo che si fa monumento, per non dimenticare. Qui, anche l’antica pieve di Santa Maria Assunta è ridotta in macerie e con essa gli arredi. E’ impossibile restaurarla.

 

Il progetto del nuovo edificio sacro viene affidato all’architetto Alberto Alpago Novello. Nel 1922, la costruzione, con la sua forma basilicale, è ultimata. Mancano però oggetti e immagini sacre a servizio della liturgia. Occorre innanzitutto ridare un volto alla Vergine dentro questo spazio a Lei dedicato.

 

L’incarico viene affidato nel 1928 al pittore Carlo Donati, che esegue anche le pale per i quattro altari laterali. Il Donati, classe 1874, è un artista di grido. Ha appena concluso tre vasti cicli murali in Sinistra Piave. E’ nato e si è formato a Verona, allora “città di felice passaggio di stili e di idee”. La sua produzione pittorica è una sintesi davvero originale tra il dire antico e quello moderno, tra il Rinascimento e le atmosfere dello jugendstil viennese, dell’art Nouveau, dei nazareni e dei preraffaelliti. Ed ecco la sua Assunta per l’altare maggiore di Sernaglia.

 

In un’aura mistica con colori materici eppur impalpabili, veste Maria come una sposa del tempo: il velo le incornicia il volto, l’abito vaporoso e candido la avvolge. Ascende al cielo trasportata da un girotondo di angeli. Pizzicano i lembi di quella fine organza, come impeccabili pagetti. Più in basso, gli apostoli sono raccolti intorno al sepolcro vuoto. Uno accanto all’altro, come un unico corpo. Col naso all’insù, sono rapiti dalla visione. Anche le loro vesti sono ricercate, le stoffe abbondanti. Sfoggiano pettinature frisées, sfrenatamente alla moda e particolarmente amate dal Donati. Una sua cifra stilistica inconfondibile.

 

Ma la pala è discussa. Vi si riconoscono ”…ispirazione, impasto, delicatezza e morbidezza ma le figure sono troppo evanescenti; la Vergine doveva dominare e gli Angeli essere meno addossati, più gioiosi e trionfanti“. E’ questo il tenore di un documento ufficiale che di lì a poco giunge al pittore stesso. E’ questo sovente il destino dell’arte. Richiedere un tempo di comprensione. La vertenza si protrae a lungo e il pittore veronese non realizzerà mai la decorazione murale che, negli intenti iniziali, doveva completare il suo intervento in questa chiesa.

 

Colpo di scena. Nel 1945, l’arciprete don Luigi Balasso dà l’incarico per una nuova pala, “…per sostituire – si legge – l’attuale dell’altar maggiore”. L’artista stavolta è Giuseppe Modolo di Santa Lucia di Piave. Ha 33 anni ed ha coltivato la sua vocazione di pittore a fianco ad uno scultore: il concittadino Riccardo Granzotto, oggi beato fra’ Claudio. E Bepi, come lui spesso si firma, pare scolpisca col colore! E’ ancora giovane ma lo aspetta una stagione lunga e felice, in parte impegnata proprio nella ricostruzione post bellica, come fu per il Donati una generazione prima. La sua pala con l’Assunta giunge a Sernaglia nel 1949. Rispetta la tradizione iconografica. Modolo ha in mente la pala dei Frari di Tiziano. Una composizione più consueta, riconoscibile. Maria è concreta e svettante su uno squarcio di cielo dorato. Un colpo di luce inonda una porzione di nuvola. Il suo biancore mette in risalto il rosso della veste, l’azzurro del mantello. Sulla terra, gli apostoli sono colti da un turbine di sentimenti. Giovanni, in posizione centrale, pare l’ago di una bilancia. Ecco un altro colpo di luce bianca. E’ il lenzuolo che uno dei dodici rimuove dal sepolcro vuoto. Non ci è dato sapere come mai nemmeno questa seconda opera conquisterà la posizione centrale. Fatto sta che le due pale d’altare oggi convivono. Occupano le pareti laterali del presbiterio. Una fa da specchio all’altra. Alte più di tre metri. Monumentali. La forma è la stessa. Due opere d’arte, due artisti, due epoche, due linguaggi, per dire la stessa verità di fede.

 

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Vis à vis: Artisti a confronto:

  • Tiziano e Francesco da Milano nel duomo di Serravalle
  • Strati di affreschi nella pieve di San Pietro di Felletto
  • Fra’ Claudio e la sua immagine nell’arcipretale di Santa Lucia di Piave
  • Francesco da Milano e Francesco Frigimelica a Sant’Andrea di Bigonzo, Serravalle

 

 

Bepi Modolo e la monumentale Via Crucis di Falzé di Piave

16 dicembre 1972

Carissimi,

ritornato definitivamente in famiglia dopo cinque mesi trascorsi a Falzè per compiere la vasta opera della “Via Crucis” mi sento il dovere di inviare a don Piero e lor signori il mio più vivo e commosso ringraziamento per avermi offerto l’occasione di realizzare un’opera che da anni mi accompagnava nei miei pellegrinaggi di lavoro in Italia e all’estero, come speranza e certezza di depositare un giorno nella chiesa di Falzè, il meglio di tante sudate esperienze.

La vostra chiesa è stata per me come si dice – il primo amore. Ho incominciato con gli angeli portatori di grazie e di pace ed ho concluso con la certezza della Resurrezione”.

 

Così scrive il pittore Bepi Modolo al parroco di Falzè di Piave, don Pietro Velo, e ai suoi collaboratori unitamente agli auguri di Natale. Parole da cui traspare un legame profondo, con il luogo e con quella comunità. Era stato lo stesso don Pietro, nel 1948, a dargli il primo incarico per la sua chiesa. Una Crocifissione ad affresco. Allora, le pareti erano ancora bianche. In quell’edificio sacro, fieramente rivolto verso il Piave, concepito dall’architetto Domenico Rupolo di Caneva dopo la Grande Guerra. Nel tempo, il pittore di Santa Lucia di Piave era tornato, per sviluppare a più riprese un vero e proprio programma iconografico. La Via Crucis ne doveva costituire il degno, monumentale coronamento. Quello della Passione di Cristo è un tema caro al Modolo. Fin dalla giovinezza. Ma a Falzé assume una valenza del tutto nuova e originale. Lo medita per anni. Si confronta con don Pietro. I due si scrivono, si scambiano ritagli di giornale di cronaca. Si scorgono immagini drammatiche: i conflitti in corso, le ingiustizie, le barbarie che ancora, agli inizi degli anni Settanta, insanguinano il mondo! Sì. In quei due nastri di intonaco bianco, ancora tutti da scrivere, deve risuonare il valore universale della Passione, il suo essere storia di tutti e per tutti gli uomini, di ieri e di oggi.

 

L’ampia superficie a disposizione porta a pensare in grande. Nascono i primi schizzi. Poi i modelletti: due straordinarie tavole di due metri ciascuna. Idea che si fa carne. “D’ora in avanti” – come afferma il pittore stesso – “è tutto definito, basta “muovere le mani”. E lui, anima limpida e libera da sovrastrutture, dedita alla pittura sacra e alla sacralità del mestiere, è padrone della tecnica. Sulla scia della tradizione, esegue rigorosamente un buon fresco. Impasti di calce e sabbia e pigmenti colorati si fanno narrazione. E’ una pittura immediata, essenziale, pervasa da un’aura dorata, sospesa. Un invito a partecipare, con la nostra storia, ad una vera e propria processione lungo la Via dolorosa. Come nota su un pentagramma, torna la figura di Gesù, per sette volte e per altre sette. Elegante e dignitosa, nella sua veste di un bianco abbacinante. E’ già speranza di luce. Guizzi di un giallo squillante accendono l’aureola. La croce assume posizioni dinamiche. Come animata in fotogrammi successivi. Ma è una presenza provvisoria, destinata ad uscire dalla scena. Sullo sfondo si snoda la storia, con le sue tragedie. La durezza dell’emigrazione, la devastazione della Grande Guerra, i campi di concentramento, la vicenda di Padre Kolbe, novello cireneo, e le orribili rappresaglie naziste. Altri patiboli, altri fardelli da portare. Ma alla fine i due registri si uniscono e diventano uno. Con Cristo risorgono quanti lungo il cammino hanno tribolato ed ora convivono con Lui nella Luce.

 

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Ritratti “ti vedo non ti vedo”:

 

 

Fontigo e il navigar sul Piave sotto la protezione di San Nicolò

Fontigo. Il nome proprio di questo luogo, nel cuore del Quartier del Piave, è già evocativo del suo carisma e dell’antico, intimo legame con il fiume. Quando giunge a Fontigo, il Piave ha già percorso più di cento chilometri. Dalla montagna che lo ha generato, scende addolcendo il suo impeto. Oltre la stretta di Vidor, raggiunte le ampie grave di Moriago, si allarga in una fitta rete di rami zigzaganti. E proprio a Fontigo il suo corso si rigenera, irrorato dalle Fontane Bianche.

 

E’ un’area incantevole questa, dove ancor oggi irrompe nel silenzio il fresco gorgoglìo di polle d’acqua sorgiva. Fontane naturali, definite “bianche” in virtù della loro limpidezza. Specchi d’acqua e macchie boschive punteggiano un paesaggio tipicamente golenale, custode di una preziosa biodiversità. Poco oltre, il fiume scorre placido. Per secoli, è stato una via maestra per la fluitazione del legname mediante il sistema delle zattere, dal Cadore fino a Venezia. Le governavano abili zattieri, in un viaggio avventuroso, condotto tra rapide e vorticosi mulinelli. Per le popolazioni rivierasche doveva essere uno spettacolo il transito delle zattere.

 

A Fontigo poi, è facile immaginare che l’equipaggio e i passeggeri si facessero ben sentire, colti in una sorta di mobilitazione generale in vista dell’imminente approdo a Falzé. Qui, gli zattieri, spossati dal navigare, potevano finalmente scendere dall’imbarcazione per lasciare il posto ad un nuovo team e tornarsene a piedi verso il Bellunese. Nel tragitto, sostavano nelle osterie, e, giunti a Fontigo, ringraziavano il loro protettore, San Nicolò, presso l’omonima chiesa.

 

Quel Nicolò, vissuto tra il III e il IV secolo, vescovo di Mira, nell’attuale Turchia, e meglio conosciuto come Nicola di Bari, dato che nel 1087 alcuni marinai ne trafugarono le spoglie e le portarono nella città pugliese. Non ci è dato conoscere l’aspetto originario della Chiesa di Fontigo. Sappiamo che esiste già nel 1224 e che ne è matrice la pieve di Sernaglia. Sappiamo inoltre che viene ricostruita nel 1887. La si scorge in una cartolina del 1918, alla fine del primo conflitto mondiale. La chiesa è distrutta. Resta in piedi l’elegante facciata. E poco altro. L’attuale parrocchiale viene eretta tra il 1921 e il 1926, su progetto dell’ing. Giovanni Schiratti e dell’architetto Alberto Alpago Novello. Tra il 1949 e il 1954, interviene infine l’architetto Luigi Candiani, con la sopraelevazione dell’aula.

 

Ma l’interno dell’edificio è spoglio. A Falzé e a Sernaglia ha da poco lavorato il pittore Giuseppe Modolo di Creazzo, personalità eclettica, capace di gestire dalla piccola tela ad olio alle più vaste superfici murarie ad affresco. E’ il 1950 quando l’artista riceve l’incarico dalla comunità di Fontigo di sviluppare un articolato programma iconografico, che culmina con l’Annunciazione ai lati dell’arco trionfale e il San Nicola sul catino dell’abside. Di quest’ultimo, sopravvive un primo bozzetto. Rispecchia l’opera finale, tranne che per quella grande paratia architettonica che l’artista inserisce nell’affresco, un espediente per far risaltare la figura del santo. Egli è al centro della composizione, in abiti vescovili. Benedice i fedeli che si assiepano davanti a lui: madri con i figlioletti, prelati, fanciulli, marinai… Ai lati, si svolgono due episodi della sua vita. A sinistra, san Nicola giovinetto ha appena offerto tre sacchetti d’oro alle figlie di un uomo caduto in disgrazia e se ne sta andando mentre il padre lo ringrazia in ginocchio, alla presenza delle tre ragazze. Ora potranno farsi una dote e sposarsi. A destra, san Nicola, divenuto vescovo di Mira, salva tre innocenti, condannati alla decapitazione dal preside Eustazio. Nicola toglie la spada di mano al carnefice e fa irruzione nel palazzo di Eustazio senza farsi annunciare. Sullo sfondo, un paesaggio montuoso e il mare.

 

Una fotografia del 1950 mostra il lavoro finito. Balza all’occhio il cielo. Quel cielo che si squarcia mostrando lo Spirito come una colomba che sembra discendere sulla terra. Un intervento successivo ne ha purtroppo cancellato il senso profondo. Fontigo è legata ad altri due santi. Non lontano dalla parrocchiale, sorge la Chiesa di San Rocco, oggi monumento ai caduti delle due guerre e, proseguendo lungo la stessa strada, vi è l’oratorio di Santa Libera, meta di tanti pellegrini.

 

poco lontano, il fiume scorre placido…

 

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La pittura sacra di Bepi Modolo: 

 

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